Fili di Memoria: Il fiore proibito

Quando mio fratello ed io, da bambini, volevamo giocare a pallone o imparare a governare la nostra piccola bicicletta rossa “Sabrina”, durante le nostre estati in Val d’Aveto, località Bertigaro, la scelta del luogo adatto era quasi obbligata. Intorno alla nostra palazzina c’erano soprattutto boschi e orti, e per la bici, al massimo, la strada provinciale, trafficata spesso da grossi camion che facevano paura; l’unico posto accessibile per questi due giochi era il giardinetto a piano terra, che i nostri vicini, quasi mai presenti, ci permettevano di usare, concessione accompagnata dalla perenne raccomandazione di mia madre: mai rovinare le ortensie. Il giardinetto era fatto così: si entrava da un basso cancellino che dava sul marciapiede, ai piedi del quale scorreva il “beo”, un piccolo ruscello, protagonista indiscusso di tutti i nostri giochi estivi, e subito si accedeva a un praticello che ricordo verdissimo e ben curato, fiancheggiato da un camminamento di cemento che conduceva a un cortiletto umido e buio nel retro della casa, che doveva essere la nostra meta. Lì, nel cortiletto umido e buio, sovrastato da un altissimo muro (o almeno, altissimo pareva a noi due), potevamo provare ad andare in bici e giocare a “passaggi” (cosa che io detestavo, ma che mio fratello invece amava molto). Il praticello, invece, era zona proibitissima, perché incorniciato da aiuole ricolme di ortensie rosa e viola. Dal momento in cui quei grandi bottoni di petali facevano capolino sul bordo delle aiuole, la frase che i nostri genitori ripetevano quando ci permettevano di giocare “là sotto” era: «State attenti alle ortensie».
Si giocava, dunque. Si andava in bici a turno, sognando, prima o poi, di cavalcare la nostra Sabrina sulla provinciale e collezionando sbucciature e cicatrici che per anni avremmo indicato narrandoci a vicenda le leggende: «E questa? Questa me la sono fatta quella volta che tu mi hai tagliato la strada con lo skate». E poi, dopo diverse richieste, mi arrendevo alle insistenze di mio fratello e ci dedicavamo ai passaggi con la palla. Io ero una schiappa, ma mio fratello era davvero bravo e tirava delle bombe, come le chiamava lui, che spesso varcavano i confini del cortiletto umido e buio. E capitava, pure, che la bomba esplodesse nelle ortensie. Se potessi dirvi il terrore disegnato sui nostri sguardi! Allora, si andava a recuperare il pallone e ci si dedicava a un’attenta ispezione delle ortensie. Al ritrovamento di un fiore rovinato, la reazione istantanea era la fuga. Recuperato il pallone, chiudevamo di corsa il cancellino e fuggivamo a giocare altrove, con il cuore che batteva e la speranza che nessuno si accorgesse del danno. Per qualche giorno ce ne stavamo ben distanti dal giardinetto e l’ortensia rimaneva, per entrambi, il simbolo di qualcosa di proibito che confinava i nostri giochi dell’infanzia. Per anni, le ho guardate con sospetto. Oggi, invece, ne ho una bellissima pianta, nella mia aiuola, e ogni volta che la guardo, non posso che sorridere e ripensare alle tribolazioni che mi ha fatto patire da bambina.

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