Ogni anno, nel Giorno della Memoria, mi ritrovo tra le mani le frasi di “Se questo è un uomo” di Primo Levi e ogni anno quelle righe percorrono la pelle con ondate di brividi: è giusto che sia così, che questo sia il loro lavoro per gli anni a venire.
Oggi, però, nel giorno del centenario della nascita di Primo Levi, di lui voglio raccontare qualcosa di diverso e lo faccio in onore di un’altra grande ricorrenza del 2019: il 150esimo anniversario della prima pubblicazione della Tavola Periodica degli Elementi da parte di Dmitrij Mendeleev. Un inno alla vita, quei 118 elementi posizionati in modo ordinato, secondo regole precise e inoppugnabili, talmente precise e inoppugnabili da rendere ragione del grande lavoro e della grande mente del chimico russo anche su elementi che ancora dovevano essere scoperti, ma che lui aveva già intuito esistessero.
La Tavola non mente mai.
E il fascino della Tavola Periodica travolge anche il giovane Primo Levi, studioso e amante della chimica, il quale ben presto si convince “Che vincere la materia è comprenderla e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev (…) era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo”. Si laurea con lode, quindi, in chimica nel 1941, tempi in cui non è facile la vita per un ebreo, tanto che, della sua laurea, scrive: “Avevo in un cassetto una pergamena con su scritto in eleganti caratteri che a Primo Levi, di razza ebraica, veniva conferita la laurea in Chimica con 110 e lode: era dunque un documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno, mezzo assoluzione e mezzo condanna”.
Siccome la chimica rimane uno dei punti fermi della sua vita, negli anni matura in lui l’idea di scrivere un libro per spiegare al mondo intero il lavoro del chimico o, come si definisce lui, di “noi trasmutatori di materia”, ma non un libro sulla “grande chimica”, ma un libro sulle “storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni è stata la mia”. Nasce, così, “Il Sistema Periodico”, una raccolta di racconti pubblicata nel 1975, nella quale Primo Levi ricompone stralci della sua autobiografia usando come tasselli alcuni elementi della tavola periodica, ventuno, scelti con l’accuratezza e la scrupolosità del metodo scientifico, e narrati con l’ironia, l’eleganza e la capacità descrittiva vivida tipica dell’autore, perché: “Così avviene, dunque, che ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza”.
Ne “Il Sistema Periodico”, Primo Levi affida ad alcuni elementi il compito di raccontare i suoi legami: lo fa con Argon, l’elemento che apre le danze e al quale associa le proprie origini e, in particolare gli antenati, perché, come i gas nobili di cui l’Argon fa parte, li ritiene inerti nel loro intimo, e lo fa con Ferro, dove narra l’amicizia con Sandro, al quale dedica questo capitolo perché “sembrava fatto di ferro”, o forse perché forte diventa il loro legame, non intaccato dalle leggi razziali da poco promulgate. Sarà la morte di Sandro a segnare la fine di questa amicizia, primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione, nel 1944, catturato e ucciso dai fascisti.
Con Idrogeno racconta del primo esperimento in laboratorio con l’amico Enrico, con un’idrolisi ben riuscita, che lo lascia stupito di fronte all’evidenza che: “Era proprio idrogeno, dunque: lo stesso che brucia nel sole e nelle stelle, e dalla cui condensazione si formano in eterno silenzio gli universi”.
Gli esperimenti si susseguono in Zinco e Potassio, accompagnati dalle riflessioni sull’antisemitismo che dilaga come una macchia d’olio. Le prime esperienze lavorative arrivano in Fosforo e Nichel mentre al Piombo e al Mercurio affida due racconti, scritti mentre lavora in incognito (a causa delle leggi razziali) in una miniera, nel tentativo di estrarre del Nichel. La situazione precipita velocemente e, nel 1943, da poco partito partigiano, Primo Levi viene catturato e portato ad Aosta, in prigione. Dal racconto di un uomo incontrato lì sul significato del nome del fiume Dora nasce Oro, che diventa il rimpianto per la vita libera, che ormai sente perduta: “Certo che avrei cercato l’oro: non per arricchire, ma per sperimentare un’arte diversa, per rivisitare la terra l’aria e l’acqua, da cui mi separava una voragine ogni giorno più larga”. Si passa poi alla prigionia ad Auschwitz, con il Cerio, che ruba nel laboratorio chimico in cui è impiegato durante il giorno, perché con esso si ottengono le pietrine da accendino da barattare con il pane che lo tiene in vita fino all’arrivo dei russi, seguendo il consiglio dell’amico Alberto: ”e ci avrebbe infine liberati il cerio, elemento di cui non sapevo nulla”. Altri racconti dedicati alla sua esperienza da chimico in seguito al ritorno a casa si trovano nei capitoli sul Cromo (primissimo lavoro dopo il lager e anche prima sfida importante che lo risolleva dal dolore di quanto vissuto ad Auschwitz), Zolfo, Titanio, Arsenico, Stagno, Argento e Uranio accompagnati da aneddoti sulla sua vita personale. In Azoto, con grande ironia, racconta della richiesta di un cliente, un fabbricante di rossetti, di produrre una molecola di nome “allossana”, una sostanza che conferisce una colorazione più resistente. Primo Levi scopre che il composto richiesto si può ottenere dall’acido urico, presente in gran quantità nello sterco di gallina e di pitone. Decide di tentare, per niente turbato dall’idea di inserire nei rossetti per signore una sostanza ottenuta da escrementi animali, perché: “la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, (…)” e, nella fattispecie: “L’azoto è azoto, passa mirabilmente dall’aria alle piante, da queste agli animali, e dagli animali a noi”. Primo Levi, quindi, estremamente esaltato dalla sua idea, informa la moglie che “l’indomani sarei partito per un viaggio d’affari: che cioè avrei preso la bicicletta, e fatto un giro per le cascine della periferia (…) in cerca di sterco di gallina”. Così fa. Non pago, essendoci in città una mostra di serpenti, tenta di rimediare anche escremento di pitone, ma senza successo. E, in effetti, non ha successo neppure la sua impresa chimica, per cui “lo sterco rimase sterco, e l’allossana dal nome sonante un nome sonante”. Con Vanadio, invece, Primo Levi si trova ad affrontare nuovamente il passato, entrando in contatto, per puro caso e per motivi lavorativi, con il dottor Muller, conosciuto ad Auschwitz, nella fabbrica di gomma di Buna. Il dottore, da cui Primo Levi dipendeva ai tempi del lager, aveva allora mostrato compassione per lui, facendogli avere addirittura un paio di scarpe di cuoio. Primo Levi, quando si accorge di avere a che fare con il “suo” dottor Muller, agognando un confronto simile da tempo, decide di scrivergli, per sapere cosa si ricorda di lui, come riesca a rendere ragione di ciò che è capitato ad Auschwitz. Ma la risposta del dottor Muller spiazza Levi. L’uomo ha ricordi totalmente distorti di quanto accaduto, come se tentasse di giustificare il passato ricostruendo una verità tutta sua, addirittura sostenendo che la fabbrica di Buna fosse stata costruita per “proteggere gli ebrei”. Primo Levi cerca di comprendere il suo punto di vista: “Anche lui, evidentemente, non aveva domandato spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso, benché le fiamme del crematorio, nei giorni chiari, fossero visibili dalla fabbrica di Buna”. La corrispondenza va avanti, Muller vuole un incontro di persona mentre continuano per lettera i suoi maldestri tentativi di superare quanto vissuto ad Auschwitz, accampando scusanti e cercando scorciatoie ideologiche, alle quali Levi vuole ribattere che “Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi”, ma quella sera stessa Muller lo chiama telefonicamente per fissare un incontro e Levi decide di non spedirgli la lettera. L’incontro tra i due non ci sarà mai perché Muller morirà prima.
Arriviamo quindi al Carbonio, che chiude il cerchio, perché se ogni elemento dice qualcosa di diverso a ognuno, “si deve forse fare un’eccezione per il carbonio, perché dice tutto a tutti”, perché è l’elemento della vita, intorno al quale si gioca il gioco della complessità, l’elemento che fa da ponte tra il non-vivente e il vivente, che fa partire il complicato meccanismo della fotosintesi per arrivare alla magia dell’energia chimica. Spassoso, brillante, geniale, il modo in cui Primo Levi descrive la complessità del ciclo del carbonio. Ma, come suggerisce lui: “Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza”.
Le frasi tra virgolette sono citazioni de “Il Sistema Periodico” di Primo Levi.
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