Quali, gli scopi delle Scienze? Perché, invece di starsene ognuno nel proprio laboratorio a elaborare nuovi argomenti, nel 1839 un gruppo di scienziati decide di fondare la “Società italiana per il progresso delle Scienze”, con il proposito di incontrarsi una volta all’anno sul suolo italiano, per discutere delle proprie idee? E come, se quel suolo ancora Italia non è? Mancano ancora più di una ventina d’anni per chiamare Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie, Regno Lombardo-Veneto, Ducato di Parma e Piacenza, Ducato di Modena e Reggio, Ducato di Lucca, Granducato di Toscana con un nome solo: Regno d’Italia. Eppure, a loro, agli “Scienziati italiani”, come si fanno chiamare a partire da quel primo congresso a Pisa, questa frammentazione non importa: loro sanno che la Scienza ha un intento alto, sommo. Far circolare le idee, confrontarle, comprendere le eccezioni, formulare modelli che possano essere universali. E allora si comprende che uniti sotto l’egida della Scienza, che come una madre sapiente annulla le differenze di nascita e appartenenza, si può ambire a una contaminazione di idee che la spartizione fisica del territorio non deve mettere a tacere. Ecco che il progresso fa quello per cui esiste: non limita, non divide, semmai amplifica, concede nuovi orizzonti, con confini sempre più distanti.
La storia dell’unificazione d’Italia, dunque, passa non solo attraverso l’azione sul campo, ma coinvolge più livelli, compreso quello intellettuale. E Genova, che in questa storia dell’unificazione entra ed esce tante volte, come spesso fa, pronta e battagliera, può smarcare la sua presenza anche in questo caso.
È il 1846: l’anno in cui nasce la birra Peroni e si scopre la presenza di Nettuno nel nostro Sistema Solare. Ci sono nuove elezioni per il Papa e ne arriva uno che sembra strizzare l’occhio ai liberali italiani.
Ed è l’anno dell’VIII “Riunione degli Scienziati italiani”, che si tiene a Genova.
E io, Genova, in quel 14 settembre, me la immagino così: una giornata assolata, con un cielo azzurro scuro, senza una nuvola in cielo, il vento teso e l’aria che sa di mare e buone promesse. Immagino una città che si prepara all’arrivo dei più grandi scienziati della penisola, un incontro che promette il futuro, ma non solo quello scientifico e tecnologico. Il futuro che tutti si immaginano è un futuro unitario e la speranza è che la cultura aiuti ad attuarlo.
Quello di Genova sarà un congresso particolarmente proficuo, da questo punto di vista: 1062 partecipanti, tra cui personaggi del calibro di Massimo D’Azeglio, nove sezioni dedicate ai vari campi d’interesse, dalla medicina all’agricoltura, dalla chimica all’archeologia, il tutto corredato da balli, ricevimenti, concerti al Carlo Felice, una medaglietta commemorativa e una nuova guida per visitare la città.
Il presidente del congresso è Antonio Brignole Sale, padre di quella che poi diventerà la famosa Duchessa di Galliera, cui Genova deve molto. Durante il congresso circolano idee scientifiche, d’accordo, ma lo stampo ne rivela l’affiliazione: si parla di rete ferroviaria unica, di un sistema scolastico comune, insomma, si comincia a riflettere seriamente sull’opportunità che, prima o poi, si diventi un Paese, si diventi Italia.
Dopo Genova, negli anni successivi, ci saranno Venezia e Siena, e poi una brusca interruzione: inizia un periodo turbolento e bisogna aspettare l’XI congresso di Firenze del 1861 per vedere nuovamente riuniti gli scienziati italiani. A chi domandi quale sia l’obiettivo di questi incontri, loro rispondono così: «Oh! Che vorrebbero forse che ogni anno i Congressi ci dessero scoperte da paragonare a quelle di Galileo e di Newton? A chi domandasse quale utile sia già venuto da quelle assemblee, risponderemo: uno grandissimo, la coscienza del sapere nazionale».
Già, perché quel nome “italiani”, quell’aggettivo aggiunto per rivendicare un ideale, dal 17 marzo 1861 non è più un capriccio, non è più una speranza.
È una realtà.
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